C'è un paradosso. Che quasi tutti gli eventi più estremi e sovversivi
degli ultimi 150 anni di storia nazionale hanno contato sull'appoggio
sicuro del cosiddetto
pubblico moderato. I moderati:
quelli che hanno applaudito i colpi di stato (la Marcia del '22, la
cacciata del governo nel 2011), che acclamano le guerre (prima e seconda
mondiali, regionali in Serbia, Iraq, Afghanistan, Libia), che accettano
la tortura (le camicie nere, i manganelli di Scelba, la macelleria del
G7), la discriminazione (gli ebrei prima, gli islamici poi) e le
tirannidi purché amiche.
Quelli che giustificano le
scorciatoie dell'uomo forte al comando, subordinano i diritti e la
dignità dei popoli alle favole economiche, sempre pronti a sottoscrivere
deroghe allo stato di diritto in nome di un'emergenza (?), che
spalancano le porte all'ingerenza straniera e sognano la dissoluzione
dello Stato nazionale nell'abbraccio servile con le altre nazioni:
Berlino, Washington, Bruxelles o - come oggi - tutti e tre assieme.
Giudicando gli esiti, i moderati sono tutto fuorché moderati. Dunque perché li chiamano così? Innanzitutto
perché a loro piace farsi chiamare così. La moderazione - o temperanza,
σωφροσύνη,
(aurea) mediocritas
- è da millenni tra le virtù morali prescritte ai saggi. La lodava
Aristotele nell'Etica Nicomachea, la raccomandava Cicerone nel libro sui
doveri (
De Officiis) e Tommaso d'Aquino ne fece una virtù
cardinale del Cristianesimo. Sicché attribuire all'interlocutore il
pregio della moderazione equivale a concedergli le insegne della
saggezza e della rettitudine, con l'effetto - e quasi sempre anche
l'intenzione - di blandirne l'amor proprio per guadagnarne l'assenso. In
quanto al messaggio, poi, poco importa se sia davvero moderato e non
viceversa foriero dei succitati cataclismi. Anzi, quanto più è estremo
tanto più è d'uopo la
captatio benevolentiae, via obbligata per carpire la fiducia dei semplici.
La moderazione ha un altro vantaggio per chi manovra il consenso. È
un'etichetta vuota, una connotazione relativa che rimanda a un
riferimento non dichiarato in modo da accomodarsi secondo la suggestione
di ciascuno. In fondo, dirsi moderati senza specificare rispetto a cosa
è come
definire una lunghezza come il doppio della sua metà.
Non dice nulla se non il bisogno di affermare il proprio equilibrio e
la propria presunta superiorità e distanza rispetto a un'altra categoria
ugualmente vuota ma specularmente infamante: l'
estremismo.
Manipolare l'opinione di chi ama qualificarsi come moderato è quindi semplice:
basta fissare d'ufficio gli estremi della dialettica con la certezza che il
soi-disant
moderato vi si collocherà disciplinatamente nel mezzo, in perfetta
equidistanza dalle sponde. In questo modo il messaggio che si desidera
accreditare non ha bisogno di essere esplicitamente asserito - come
accadeva e accade nei regimi manifesti - ma è suggerito per induzione.
Se volessimo far sì che il moderato pensasse al numero 8, gli diremmo di
sceglierne liberamente uno tra 4 e 12. E lui cascherebbe
prevedibilmente nella media:
Nella realtà, lo
spin doctor accorto sa che si deve ridurre
il più possibile la distanza tra gli estremi, per evitare un'eccessiva
libertà di pensiero e la dispersione delle idee rispetto all'esito
prestabilito. Il che spiega l'odierno
Drang nach der Mitte, la
centrizzazione del pensiero
dove i cosiddetti estremi si qualificano sempre più come caute
sfumature di un'opinione unica e centrale. Ad esempio, chi oggi chiede
di tutelare la sovranità nazionale passa per nazionalista di
ultradestra, mentre chi vorrebbe qualche protezione in più per i
lavoratori è un comunista. Si tratta chiaramente di rappresentazioni
parossistiche e strumentali al
mainstream, laddove il vero
estremismo è casomai quello di chi non riconosce in queste richieste un
invito al rispetto della legalità costituzionale.
Il cosiddetto
centro non è che lo stesso concetto di
moderazione applicato ai movimenti politici. Ugualmente privo di
significato in sé e ugualmente estremo negli atti, vive di ciò che i
commentatori - cioè gli
influencer - politici definiscono di
volta in volta come massimalista. E poiché nessuno vuole portare l'onta
dell'estremismo, tutti si accalcano verso il punto centrale di un
recinto sempre più stretto - quello del
pensiero unico - mentre il dibattito politico si riduce all'irrilevanza dei simboli e del gossip, in una
bassa democrazia che discute del colore e della forma del cappio a cui andrà ad appendersi.
Tra i tanti esempi applicativi di questa tecnica di manipolazione di
massa mi sovviene una prima pagina del 2003, all'alba della seconda
guerra del Golfo. In un'Italia tentennante tra interventismo e
astensione (essendosi in realtà già deciso
altrove
per la prima opzione), mi imbattevo in un doppio editoriale dal titolo
"Opinioni a confronto". Qui il primo articolista sconsigliava il ricorso
alle armi proponendo di limitarsi (!) a un inasprimento delle sanzioni
contro l'Iraq, mentre il secondo invocava una più esemplare azione di
forza punitiva. La dialettica era naturalmente falsata e unilaterale:
entrambi gli articoli accettavano infatti la necessità di colpire
duramente uno stato sovrano, cosicché al moderato non restava che
posizionarsi nello stretto margine
tra l'estremo e il più estremo, escudendo dal suo orizzonte intellettuale l'ipotesi stessa di
non infliggere sofferenza e caos a milioni di persone innocenti. Che poi sarebbe
il minimo per chi coltivasse davvero la virtù della moderazione.
La complessità mentale del moderato è quella di un
organismo monocellulare. Prevedibile e manovrabile al millimetro, ha l'ulteriore vantaggio di prediligere la
cosmesi del simbolo
rispetto agli atti. Plasmato da decenni di retorica, egli si pasce di
suggestioni, rappresentazioni e slogan, minimizzando così lo sforzo di
chi si candida a manipolarne l'opinione. Un tailleur,
un loden,
un discorsetto sui diritti gay e un eloquio pacato valgono più di mille
cronache per accendere in lui l'illusione di un equilibrio sobrio e
meditabondo. Al contrario, uno scampolo di turpiloquio, un'intemperanza o
una deviazione sia pur minima dal conformismo etico e parolaio dei più
lo fanno gridare all'estremismo, purché opportunamente serviti con
contorno di editoriali salottieri e distaccatamente indignati.
Una volta confezionato per via mediatica, l'estremo da cui rifuggire
si trasfigura nella suggestione dell'opinione moderata in esiti
apocalittici e spaventosi. Esiti di cui ovviamente
non c'è traccia nella realtà
e che pertanto ne travalicano i confini lambendo i territori
dell'incubo e del grottesco: "Di questo passo - chiosa il benpensante -
dove andremo a finire?". Nel suo microcosmo culturale gli euroscettici
sono folli promotori di un'Europa fratricida e pronta a ripetere i
massacri delle guerre mondiali, chi mette in discussione la moneta unica
un pericoloso fomentatore di miseria e inflazione a due cifre, chi
critica le politiche migratorie un nostalgico dei muri spinati di
Auschwitz, chi si oppone alla privatizzazione e liberalizzazione di
tutto uno stalinista nemico della libera iniziativa economica, chi fa
politica dicendo le parolacce un ambasciatore di barbarie, chi declama
il primato della famiglia tradizionale un bigotto à la Torquemada, chi
si interroga sulle vaccinazioni un untore, chi denuncia le politiche
israeliane un antisemita, chi predilige i prodotti nazionali un
autarchico ecc. A conferma del fatto che il moderato è
necessariamente - non eventualmente - un estremista, in quanto appunto allevato nella
rappresentazione ossessiva dell'estremo.
Come tutti i pensatori elementari, il moderato avverte il bisogno di dare un volto alle sue paure. Egli
cerca il cattivo
per conferire senso alle vicende del mondo, siccome l'orco e la strega
danno senso alle fiabe. E i fabbricatori dell'informazione lo sanno
bene, e sono più che pronti a soddisfarne la fame di orrore: con i
Salvini, le Le Pen, i Gasparri, gli Orban, i corrottissimi autarchi
delle steppe, i satrapi dissoluti del continente nero e gli sceicchi del
terrore da mille una notte. Una galleria sinistra e letteraria popolata
non dai protagonisti di storie da approfondire, ma da
personaggi
che incarnano l'estremo in quanto oggetto da odiare, mostri mitologici
messi a guardia di un recinto mentale che non va oltrepassato affinché
il gregge non si disperda nei pascoli del libero pensiero.
In questa allegoria i fatti si annullano e più spesso
si ribaltano,
essendone l'occultamento uno dei fini. Nelle presidenziali americane in
corso il cattivo è Donald Trump: perché è intemperante, aggressivo e
razzista. Il che è probabilmente vero, ma vieppiù inquietante è il fatto
che la sua rivale,
la signora Clinton, sia invece
accreditata dall'opinione pubblica come il polo moderato della sfida.
Mettendo così sullo stesso piano le sparate verbali di un Berlusconi al
cubo con i
fatti atroci e documentati ascrivibili alla cinica
ambizione della donna. La stessa che dopo avere votato l'invasione
dell'Iraq con un pretesto
consapevolmente falso e lasciando sul
terreno un milione di morti, nel 2011 si è fatta principale sponsor
politico dell'intervento in Libia, ribattezzato dai giornali
Hillary's war:
la guerra di Hillary. Anche qui persero la vita decine di migliaia di
persone innocenti e un paese florido e politicamente stabile fu
devastato e consegnato all'anarchia. E lei? Se ne vantò ridendo in prima
serata: "We came, we saw,
he died". Si scoprì poi che
tra i fini della moderata Hillary, l'amica dei moderati italiani che
ride della morte altrui, c'era anche quello di
strapparci con le armi le concessioni petrolifere
in Libia. Ma la signora è donna, si dice democratica e comsopolita e
dispensa carezze alle portoricane del Queen. E tanto basta per
sostenerla.
Il caso - e i moltissimi ascrivibili allo stesso paradigma - rivela
un aspetto centrale della psicologia dei moderati, cioè l'inclinazione
ad anteporre nella gerarchia dei pensieri le
conseguenze immaginabili dei fatti ai fatti stessi. Ciò preoccupa perché integra una forma di
alienazione o paranoia collettiva dove i diritti dell'immaginazione prevalgono sulla realtà e la potenza sull'atto. Mentre si chiedono angosciati di che cosa
sarebbe capace un Trump, non si curano di ciò di cui
è stata
capace Hillary. O per fare un esempio a noi più vicino, mentre
paventano le conseguenze di un'uscita dell'Italia dal baraccone europeo,
non registrano che quelle stesse conseguenze - disoccupazione,
diminuzione del potere d'acquisto, instabilità finanziaria,
insicurezza dei risparmi,
cessione di asset nazionali, delocalizzazioni produttive, emigrazione
giovanile, aumento del debito pubblico, conflittualità tra gli Stati
ecc. - si stanno verificando
dentro l'Unione e
a causa
dell'Unione. Il moderato non è programmato per i fatti e non impara
nulla dalla storia, neanche quella a lui contemporanea. A tutto
vantaggio di chi lo manovra, che non potendo alterare gli eventi storici
può invece comodamente scrivere e riscrivere le fantasie che lo
orientano nel giudizio.
Spesso mi sono chiesto quali siano i moventi psicologici che spingono
i sedicenti moderati a dichiararsi tali e a sottoporsi a un processo di
manipolazione così umiliante. Oltre al già detto bisogno di affermare
la propria degnità morale, la risposta credo sia da cercare nella
qualità estetica dell'apparato mediatico che sostiene l'operazione. I
protagonisti e le istituzioni dell'opinione moderata - i quotidiani
storici, i salotti televisivi, le firme di Mieli, Mauro, Severgnini,
Scalfari, Romano, Galli della Loggia, Ostellino e i volti di Vespa,
Fazio, Floris, Mentana e mille altri, se non tutti - incarnano un
rassicurante cliché altoborghese
che non ha mai smesso di affascinare la nostra classe media. Un cliché
senza tempo sotto i cui abiti di sartoria pare indovinarsi una cultura
profonda ma non esibita, una proprietà di giudizio che si impone senza
urla né insulti, una signorilità indulgente che sa sorridere delle
debolezze umane. Ma soprattutto, il
savoir-vivre degli uomini di mondo che con accorta eleganza
scivolano da un sistema di potere all'altro
senza sporcarsi il vestito e cadendo sempre in piedi, quasi
appartenessero a una civiltà a sé che trascende gli accidenti storici e
se ne immerge senza corrompersi. Ciò che qualcuno - incluso chi scrive -
definirebbe
prostituzione intellettuale è invece per molti un modello di realizzazione personale e sociale da imitare: di chi si piega (
al padrone di turno) ma non si spezza.
Il moderato è quindi all'origine un
conformista nel senso
pieno del termine, in quanto desidera appunto conformarsi all'asettico
decoro stilistico e materiale dei sempre-amici del principe, dei quali
riconosce solo strumentalmente - cioè
per viam imitationis - anche l'autorità intellettuale. Perché in fondo non vuole
essere, non cerca un'identità propria. Vuole anzi
non essere:
provinciale, razzista, fascista, immaturo, populista, omofobo,
impulsivo, semplicista, italiano-medio e insomma tutto ciò che nella
vulgata del momento lo distinguerebbe dal modello astratto a cui occorre
uniformarsi per non stonare nella mandria dei "buoni".
La fortuna di questa operazione di marketing mediatico e sociale non
ha mai conosciuto crisi. Dall'Unità nazionale ad oggi vi si è coltivato
un serbatoio di consensi a cui i potenti di turno hanno attinto per
legittimare se stessi e i loro atti, anche e soprattutto i più osceni.
Un serbatoio di consensi pregiati, perché espressione delle classi
mediamente più colte e facoltose, le stesse che amano informarsi e
dibattere, diffondere le opinioni e dare vita a movimenti, iniziative a
supporto di un'idea e finanche scrivere libri. Non stupisce allora che i
partiti politici e gli organi di informazione si contendano l'etichetta
di moderati e l'attenzione di quel pubblico: perché
i moderati sono la spina dorsale del potere, gli utili inconsapevoli sempre pronti a reggergli il gioco.
Qualsiasi gioco.
Alcuni giorni fa il Corriere della Sera, organo indiscusso della
categoria qui descritta, ripubblicava in occasione del 140o anniversario
dalla fondazione il celebre editoriale di Eugenio Torelli Viollier
"Al pubblico"
apparso sul numero 1 del giornale. Rileggerlo oggi fa quasi spavento.
La parola "moderato" vi appare 12 volte e, se non fosse per la prosa
datata e i diversi riferimenti storici,
potrebbe essere stato scritto ieri. Qui c'è già tutto.
La
captatio benevolentiae:
Pubblico, vogliamo parlarti chiaro. In diciassette anni di
regime libero tu hai imparato di molte cose. Oramai non ti lasci gabbare
dalle frasi. Sai leggere fra le righe e conosci il valore delle gonfie
dichiarazioni e delle declamazioni solenni d’altri tempi. La tua
educazione politica è matura. L’arguzia, l’esprit ti affascina ancora, ma l’enfasi ti lascia freddo e la violenza ti dà fastidio.
L'epica dell'austerity:
Come il cavaliere templario della ballata di Schiller, il partito moderato mosse diritto al mostro del disavanzo, con un mastino al fianco. Questo mastino si chiamava l’Imposta
– bestia ringhiosa, feroce, spietata; ma senz’essa era follia sperare
di vincere. L’Italia unificata, il potere temporale de’ papi abbattuto,
l’esercito riorganizzato, le finanze prossime al pareggio, – ecco l’opera del partito moderato.
La fregola di congiungersi con i popoli tedeschi:
In grazia loro [del Governo] si è udito Francesco Giuseppe
d’Austria dire a Vittorio Emanuele: «Bevo alla prosperità dell’Italia», e
Guglielmo di Prussia: «Bevo all’unione de’ nostri popoli».
Il fastidio per la democrazia:
E però ci accade [...] di non voler il suffragio universale,
se l’estensione del suffragio deve porci in balia delle plebi fanatiche
delle campagne o delle plebi voltabili e nervose delle città.
Ma soprattutto, la definizione più precisa e rivelatrice dell'ethos politico moderato: essi sono "
conservatori prima, moderati poi", appartengono cioè
al partito [...] che ha avuto finora le preferenze degli elettori, – e per conseguenza il potere. Questo partito cadrà un giorno, perché tutto cade, tutto passa a questo mondo...
... ma non i moderati. Loro sono ancora qui, eterni anche nel nome,
sempre pronti a schierarsi con il più forte, fieri di essere servi e penosamente illusi di custodire la coscienza civile di questo Paese.
Come si fa a non disprezzarli?
Fonte:
http://ilpedante.org
Link:
http://ilpedante.org/post/i-moderati-sive-de-grege
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