SOCIAL TRUMP - LA PROPAGANDA AI TEMPI DI FACEBOOK E DEI BIG DATA SECONDO OXFORD: LA "PRIMAVERA ARABA" ERA LA "TWITTER REVOLUTION". TRUMP E' IL PASSO SUCCESSIVO? O FORSE ENTRAMBE LE RETORICHE SONO FALLACI - "QUELLA CHE MOLTI CHIAMANO "POST-VERITÀ" CONDIVIDE ALCUNI DEI TRATTI DEL "NEO-FASCISMO"
Claudio Sale per “l’Espresso”
Fa
una certa impressione interpellare i massimi esperti di una disciplina e
sentirli vacillare perché un evento ne ha appena riscritto i confini.
Accade mentre l' Espresso è in conversazione con Russ Castronovo e
Jonathan Auerbach, curatori dell'"Oxford Handbook of Propaganda", la
Bibbia del settore.
Perché
l' evento è l' elezione di Donald Trump a presidente degli Stati Uniti;
e la disciplina, lo studio della propaganda. L' obiettivo è vederci più
chiaro, capire se la storia e la teoria di quella nozione, nata con
Bolla papale nel Seicento per "propagare" la fede cattolica nel "nuovo
mondo", ci possa aiutare a comprendere l' era di Brexit, Trump e dei
populismi.
«Gli
eventi delle ultime due settimane negli Usa», risponde invece Castronovo
stroncando le speranze sul nascere, «hanno messo a dura prova ciò che
molti di noi pensavano di sapere su propaganda e comunicazione. Credo
che dovremo riesaminare a lungo diverse nostre premesse e conclusioni».
twitter for trump
Il
docente dell' Università di Wisconsin-Madison aggiunge poi che «l'
elezione di Trump ha cambiato il modo in cui pensavamo circolasse l'
informazione, come le persone comunicano, ma anche come processano e
diffondono la propaganda». Mentre ragiona su quello che definisce un
«drammatico campanello d' allarme per molti studiosi di comunicazione
politica e retorica», l' intero mondo dei media è invece impegnato a
chiedersi se Trump è alla Casa Bianca per colpa di Facebook.
Delle
notizie false che vi circolano, che diventando "virali" fanno di video,
memi e post potenti mezzi di propaganda politica. Potenti al punto di
portarci nella "post-verità". In un' era del rapporto tra potere e
informazione, cioè, «in cui i fatti oggettivi contribuiscono meno alla
formazione dell' opinione pubblica degli appelli emotivi e le credenze
personali». Lo credono diversi analisti e commentatori politici; per
l'"Oxford Dictionary" post-verità è addirittura la "parola dell' anno".
Ma per gli studiosi di propaganda sa tutto di già visto.
TRUMP
Harold
Lasswell scriveva qualcosa di simile già nel 1941, parlando di un mondo
in cui «un sospetto generale è diretto contro ogni fonte di
informazione»; e in cui i cittadini finiscono per «convincersi che non
ha senso cercare il vero negli affari pubblici». Due decenni prima di
lui era stato Walter Lippmann, giornalista e poi padre degli studi
moderni sulla propaganda, a coniare la definizione che avrebbe ripreso
con così tanta fortuna Noam Chomsky: «fabbricare il consenso".
L'
idea è perfettamente attuale oggi, nell' era del "sovraccarico
informativo" e dell' economia dell' attenzione: nel mondo ci sono troppe
informazioni, dice Lippmann in "Public Opinion", e l' uomo vi fa
fronte, per natura, coi pregiudizi. Finché non giungono i media a dare
loro forma, secondo i loro interessi. Sono i media, insomma, a colmare
la distanza necessaria tra evento e pubblico che rende possibile la
propaganda. Sono loro, diremmo anche oggi, il "filtro".
Cosa
è dunque successo con Trump? Secondo il filosofo sloveno Slavoj Zizek,
la "fabbrica del consenso" si è, molto semplicemente, spezzata. In un
ecosistema informativo in cui i media perdono autorevolezza, e chiunque
diventa il proprio media grazie a Facebook, Twitter o YouTube, la
distanza tra evento e pubblico si azzera. Il "filtro" non serve più:
ciascuno ha il proprio, sotto forma di un algoritmo di selezione delle
notizie di un social network o presentazione dei risultati di ricerca.
Ma
c' è molto altro, suggerisce Zizek: «La democrazia», dice in "How
political elites failed", «non è fatta solo dalle formali regole
elettorali. È un' intera, spessa rete che detta come viene costruito il
consenso politico, con diverse regole non scritte. E ora gli Stati Uniti
si trovano a un momento importante, in cui la macchina che costruisce
il consenso si è rotta».
Rotti
i partiti tradizionali, di cui Trump rappresenta la negazione. Rotti i
media, che lui e i suoi detestano. Rotte le rappresentanze sociali.
Rotto il futuro. Rotta la democrazia, che non interessa a oltre 2/3 dei
millennial americani. Rotto anche l' algoritmo di Facebook, certo: ma c'
è una realtà, fuori dalla "bolla" mediatica, e a volte riaffiora.
Quando lo fa a questo modo ne seguono momenti "catastrofici", dice
Zizek, che possono condurre dritti al fascismo. O a Trump. Non è un caso
che Mike Cernovich, il maestro dei memi pro-Trump oggetto di un recente
ritratto del "New Yorker", dica: «Se tutto è narrazione, allora c' è
bisogno di alternative alla narrazione dominante». Molto, infatti, è
cambiato. La propaganda, fino a oggi, non era materia di scienziati, ma
di artigiani. Anche malvagi, come Joseph Goebbels; ma artigiani.
«La
propaganda è un' arte che richiede un talento speciale», scriveva Leo
Bogart ancora nel 1995, «non è un lavoro meccanico, scientifico. Nessun
manuale può guidare un propagandista». Eppure nell' era dei Big Data e
della profilazione totale quando si legge di propaganda sempre più si
leggono numeri, correlazioni, dati. Si contano i profili Twitter
arruolati da Isis, o i "bot" che automatizzano la diffusione di
contenuti propagandistici sui social media. Si mappano le relazioni
sociali online dei propagandisti - e se ne mutano i nodi più grandi in
celebrità internazionali.
Si
contano "like", condivisioni e pagine viste e le si confrontano per
testate tradizionali e siti di disinformazione. Ma si perdono di vista
contraddizioni fondamentali. Nel 2011, per esempio, i social media
venivano generalmente considerati come promotori di democrazia, non di
nuovi autoritarismi. La "Primavera araba" era stata definita "Twitter
revolution". Possibile sia Trump il passo successivo? Forse entrambe le
retoriche sono fallaci: era falso cinque anni fa che fosse Twitter a
provocare rivolte democratiche; è falso oggi che la strada del magnate
alla presidenza sia lastricata di tweet. Eppure, nota
Castronovo,«entrambi i movimenti hanno usato con successo i social media
come piattaforma per diffondere le loro idee».
murale egiziano sulla primavera araba
La
questione, in tutti questi dibattiti, resta confinata al dominio del
tecnologico. Così si parla sempre più di propaganda, ma come disciplina a
sé resta marginale, negli studi filosofici, in quelli storici e di
comunicazione. È una lamentela che accomuna tutti i classici del
settore, negli ultimi quarant' anni.
«Per
non temere la propaganda dobbiamo capirla», scrivono gli studiosi. Ma
pochi li ascoltano. Per Jason Stanley, di Yale, la spiegazione sta nel
fatto che la teoria politica si è a lungo occupata di democrazie
liberali "ideali", in cui - essendo tali - non c' è propaganda.
Castronovo ne offre un' altra, più umana e sottile: «Jacques Ellul ha
scritto che le persone più influenzabili dalla propaganda sono quelle
che credono di esserne immuni». Per esempio, «la classe intellettuale,
che presume di avere la razionalità, l' intelligenza e le abilità
analitiche» necessarie a sfuggirvi. Ellul ha tuttavia sottolineato anche
che la propaganda ci è necessaria, perché ci procura piacere.
Un
passaggio cruciale, che oggi lascia Auerbach senza parole: «Avevo
sottostimato la maniera in cui Trump è stato in grado di mescolare paura
e piacere, facendo in modo si nutrissero l' una dell' altro quando io
li consideravo opposti». È un modo per solleticare gli istinti, per
esempio quelli razzisti o islamofobi, e insieme lenire la colpa di
desiderare razzismo e islamofobia. Perché quella che molti chiamano
"post-verità" condivide alcuni dei tratti del "neo-fascismo", ricorda
Castronovo.
E
attenzione ai numeri: Stanley, in "How Propaganda Works", aggiunge che
«perfino se accurate, le statistiche possono avere una funzione
propagandistica verso il dominio e l' oppressione, oscurando le
narrazioni che le metterebbero in luce».
Tornare
al significato delle parole, alla loro storia, è dunque imperativo. I
demagoghi che aizzano le folle a mezzo propaganda per accelerare la fine
della democrazia ci sono già in Platone e Aristotele.
La
sostituzione della realtà con una sua versione di comodo a scopi
elettorali non viene da Trump, ma dalle analisi del totalitarismo di
Hannah Arendt. Perfino l' idea che la propaganda debba essere ovunque,
per funzionare, che vi si debba essere "immersi" come in una realtà
virtuale, non deriva dall' essere sempre connessi: Ellul, altrimenti,
non avrebbe potuto scriverne già negli anni Sessanta. Resta da capire,
tuttavia, se questo apparato concettuale sia ancora utilizzabile, in
tutto o in parte, o sia invece scaduto.
Nell'
era in cui si teme le elezioni finiscano vittima di hacker, come un
telefonino; in cui squadre di troll assaltano gli avversari politici
fino a intasarne gli spazi di discussione e la pazienza; in cui non
solo, come sosteneva Edward Bernays nel 1928, «siamo governati, le
nostre menti plasmate, i nostri gusti formati, le nostre idee suggerite
in gran parte da uomini di cui non abbiamo mai sentito parlare prima»,
ma forse quei manipolatori non sono più nemmeno uomini, ma "bot": ha
ancora senso, in un' epoca simile, studiare il passato?
MCLUHAN E I NUOVI BARBARI
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