Menzogne e falsità
Potrebbe essere il titolo di un libro, come "Orgoglio e pregiudizio", "Delitto e Castigo", o di una pièce teatrale alla Eduardo Scarpetta, tipo "Miseria e Nobiltà".
Invece è
la cronaca di questi giorni: è deflagrata improvvisamente - dopo essere
rimasta a lungo sotto traccia - la questione delle fake news, come in
gergo si definiscono le notizie inventate e prive di fondamento diffuse
dai media, in particolare su web, tramite social network. Giusto per
intenderci sui termini: le fake news sono notizie false e menzognere, in
forma di scritti, immagini, fotografie, più spesso un cocktail
esplosivo di tutte queste forme, messe scientemente in
circolazione nella rete per creare disorientamento, atteggiamenti
ostili, polarizzazioni di emozioni e sentimenti anti, prevalentemente, o
pro qualcuno/qualcosa, in ultima analisi anche con l'intento di
spostare consensi elettorali da una parte a un'altra.
Questa
definizione - più ancora dell'altro termine gergale "bufale" - dovrebbe
mettere in chiaro le conseguenze, anche penali, che menzogne e falsità,
quando hanno valenza diffamatoria, cioè quasi sempre, possono produrre.
Improvvisamente,
in realtà, è un termine improprio. Sono almeno due anni che leggiamo
con preoccupazione questo genere di notizie, questa per esempio è del 22 marzo 2014.
Sono
almeno due anni che ci si occupa - in base ai propri diversi ambiti e
profili professionali e alla sviluppata sensibilità al problema - di
fake news: giornalisti d'inchiesta come Jacopo Iacoboni,
che su "la Stampa" sta raccogliendo da tempo dati (e relativi insulti)
sul ruolo degli hacker russi e sulla relazione con movimenti italiani, o Federica Angeli,
che su "la Repubblica" sta conducendo le sue inchieste su Ostia e
periferie romane che sono costate minacce di morte a lei e ai suoi
figli, minacce a causa delle quali è sotto scorta (e per questo
ulteriormente vittima di attacchi fake); un debunker come David Puente,
che ha portato alla luce molti legami oscuri nel mondo politico (i
codici Google Adsense identici utilizzati da siti afferenti al movimento
salviniano e pro MoVimento 5 stelle), riprendendo testate importanti
come il Nyt;
ricercatori come Walter Quattrociocchi, che è stato recentemente
chiamato da Ca' Foscari, l'Università di Venezia, a dirigere il Laboratory of Data Science and Complexity;
o, infine, come chi scrive, che coordina il gruppo di Analisi del
Comportamento e Behavioral Economics presso l'Università Iulm e presso
Iescum - Istituto Europeo per lo Studio del Comportamento Umano.
In
queste ultime settimane, si sono aggiunti tre fattori rilevanti. La
dura presa di posizione politica del segretario del Partito Democratico,
Matteo Renzi,
in chiusura della ottava edizione della Leopolda, che ha suscitato
molte reazioni; qualche giorno prima era stato reso noto un rapporto
dell'Atlantic Council, think tank statunitense, titolato "The Kremlin's
Trojan Horses: Russian influence in Southern Europe", che analizza il
ruolo di hackers supposti vicini al, o direttamente guidati dal,
Cremlino nel tentativo di destabilizzare i paesi dell'area mediterranea;
infine, le recentissime dichiarazioni
di Joe Biden, Vice Presidente durante l'amministrazione Obama, in un
articolo sulla rivista "Foreign Affairs" sulle azioni russe di
sabotaggio per influenzare verso il NO il referendum costituzionale
italiano dello scorso 4 dicembre e sui contatti sotterranei di M5s e
Lega con agenzie governative russe.
Le
reazioni sono state varie, ma possono essere ricondotte a due
tipologie. Da una parte, c'è forte preoccupazione, visto quanto successo
durante le elezioni presidenziali degli Stati Uniti, nel referendum Leave or stay
in Inghilterra, in Spagna per l'indipendenza Catalana, e quanto sta
emergendo in Italia sull'ultimo referendum. Dall'altra, ci sono
tentativi, più o meno credibili, di sdrammatizzazione. Appartengono a
quest'ultima tipologia per esempio l'articolo
di Pier Luigi Battista, sul "Corriere della Sera" del 20 novembre, e le
dichiarazioni del Presidente della Commissione di Vigilanza Rai,
Roberto Fico, in un'intervista alla Stampa del 29 novembre scorso.
L'argomentazione
che tende alla sdrammatizzazione sarebbe questa: niente di nuovo, le
grandi potenze hanno sempre fatto "disinformazia", fa parte dello
spionaggio, anche ai tempi della Roma imperiale si diffondevano notizie
false e via di questo passo.Non
mi iscrivo a questa scuola di pensiero, e - quindi - senza inutili
isterismi, ma sulla base delle evidenze scientifiche, credo si debba
esser preoccupati, e, alla luce dei motivi che vado a discutere, non
minimizzare il fenomeno.
È
vero, le fake news ci sono sempre state, anche ai tempi dell'antica
Roma si diffondevano notizie false per screditare la parte avversa,
basti pensare alla vicenda Cicerone-Catilina. Succedeva anche prima,
nella democratica Grecia, e probabilmente prima ancora, se vogliamo
ricomprendere fra le menzogne l'inganno acheo del Cavallo di Troia. C'è
una falsità storica che riguarda da vicino il nostro paese, quella
relativa alla Donazione di Costantino, un documento
apocrifo (poi datato VIII o IX secolo) in base al quale la Chiesa
giustificava la propria aspirazione al potere temporale: secondo questo
documento, infatti, sarebbe stato lo stesso imperatore Costantino, trasferendo
la sede dell'impero a Costantinopoli, a lasciare alla Chiesa il
restante territorio dell'Impero Romano. Lorenzo Valla (1405-1457),
umanista, può essere considerato il primo debunker, in quanto dimostrò
la falsità di quel documento con argomentazioni storiche e filologiche,
nel suo "De falso credita et ementita Constantini donatione".
So
what? Vogliamo paragonare la velocità di diffusione dell'effetto
calunnioso in un quartiere di Atene o Roma, con la velocità di Internet!
Davvero, come dice David Puente, "affermare che il problema della
disinformazione non esistasignifica non capire il nostro
tempo", che continua, "Oppure essere parte del problema". Popolarmente
si dice "fare il pesce in barile".Quindi, si tratta di
analizzare approfonditamente il fenomeno se vogliamo capirne i
meccanismi, per poi ipotizzare azioni di contrasto che non siano
peggiori del male e i cui effetti siano valutabili scientificamente.
La
tecnologia gioca di sicuro una parte importante. I social network ai
tempi di Atene e Roma erano l'agorà o il foro, ora sono una ragnatela
che connette e copre il mondo intero. Perfino la locuzione "diffusione
virale" ormai è una metafora obsoleta, dato che le epidemie si
diffondono più lentamente delle falsità. Non c'è neanche bisogno che un
umano si metta materialmente a digitarle le menzogne, ci pensano i
programmi automatici, i bot, che in pochi secondi inondano il mondo
della stessa falsità. Ci sono evidenze chiarissime e inoppugnabili.
Infine,
non dimentichiamo la delicatissima questione dei big data, l'oro
informatico del terzo millennio. Ciascuno di noi lascia innumerevoli
tracce di sé, dei propri movimenti, delle proprie preferenze, dei propri
acquisti, delle proprie opinioni in campo politico e sociale. Sapere è
potere. Bisogna ricordare, senza cadere in paranoia, che tutte queste
tracce sono preziose e sono utilizzate, per diversi scopi, leciti e meno
leciti.
Se entriamo più a fondo nel campo scientifico, ci sono alcune osservazioni da fare. Noi, organismi homo sapiens,
abbiamo sviluppato una conoscenza e una tecnologia che, grazie al
metodo scientifico, non ha paragoni in altri periodi storici, pur
facendo le dovute comparazioni. Tuttavia, l'homo sapiens non è
biologicamente molto diverso da quello di centomila anni fa. Le
strutture fisiche, comprese quelle neuronali, sono sostanzialmente le
stesse e svolgono la stessa funzione, aumentare la probabilità di
sopravvivenza, anche se le condizioni ambientali sono cambiate.
Un
esempio è la paura. I meccanismi della reazione di paura sono gli
stessi di centomila anni fa, anche se gli oggetti della paura sono
cambiati: ci immobilizziamo, scappiamo o lottiamo, sia che l'oggetto
della paura sia una bestia feroce, un terrorista, parlare in pubblico e
addirittura uscire di casa per andare in ufficio. Nelle situazioni di
paura, il pensiero complesso si blocca, l'attenzione si restringe, non
ci si pone domande, non si esplorano alternative. Non c'è tempo per
pensare, bisogna solo muoversi: aggredire o fuggire. La prima reazione è
simile a quella dei "leoni della tastiera", o "tigri della tuittesia",
come li ho definiti una volta con linguaggio salgariano, la seconda è
tipica di chi soffre di disturbo di panico o ansia sociale.
Per
capire questa reazione, bisogna sapere che il nostro cervello non
distingue tra minacce reali e minacce solo immaginate. Questa
"confusione" è una caratteristica esclusiva dell'homo sapiens,
che implica il ruolo di pensiero e linguaggio, strumenti potentissimi
dell'evoluzione umana, che purtroppo portano a reazioni di stress
diverse da quelle di altri animali: le zebre, che per sopravvivere
devono correre più svelte della leonessa affamata, non vanno a dormire
dicendosi "accidenti, anche domani dovrò correre", non perdono la fame o
il sonno pensando a come sfuggire al leone, non si svegliano nel cuore
della notte col pensiero didover cominciare a correre per
sfuggire al leone, come spiega Robert M. Sapolsky, nel suo "Perché alle
zebre non viene l'ulcera" (Libri in Tasca, 2011). Corrono e basta, sono fatte per quello. Gli uomini, invece, si fanno venire l'ulcera.
Gli
uomini si fanno agganciare da pensieri ed emozioni, che, tecnicamente,
nella terapia cognitivo comportamentale di terza generazione, sono
chiamati "ami". La maggior parte delle fake news ingloba contenuti che
hanno la funzione di ami, contenuti che svolgono molto bene questa
funzione provocando le reazioni di paura e aggressività non solo dei
tastieristi - che sono pur sempre una minoranza della popolazione - ma
di interi gruppi sociali.
Questo meccanismo è stato messo in evidenza negli ultimi trent'anni dalla psicologia del comportamento e da una sua branca, la Behavioral Economics, una disciplina che ha avuto il riconoscimento di ben due Premi Nobel: Daniel Kahneman, nel 2002, e Richard Thaler nel 2017.
Daniel Kahneman per primo ha analizzato a fondo il ruolo di alcune abilità acquisite dal cervello nel corso dell'evoluzione, ovvero le euristiche.
Le euristiche sono state utili per la sopravvivenza dell'uomo,
permettendogli - in ambienti pericolosi - decisioni rapide, efficaci e
conservative. Sono ancora utili, in quanto alleggeriscono la "fatica"
del pensiero, nelle attività meno importanti e quotidiane: con il nostro
corredo di euristiche, risparmiamo tempo e fatica nel prendere
decisioni semplici o nel crearci un'opinione immediata delle situazioni
nelle quali ci troviamo. Il lato nero delle euristiche è che ci rendono
facile preda degli ami, cioè ci fanno reagire in modo rapido e
automatico nel momenti in cui, invece, servirebbe un pensiero razionale,
e producono distorsioni del giudizio ed errori decisionali sistematici, noti come bias.
Kahneman descrive due sistemi cognitivi, il sistema 1, produttore del pensiero veloce, e il sistema 2,produttore del pensiero lento. Sono metafore del funzionamento della nostra mente, non localizzazioni cerebrali. Il
pensiero del primo sistema è inconsapevole, intuitivo, istantaneo,
emozionale, sintetico, automatico, poco faticoso. Il pensiero del
secondo sistema è consapevole, analitico, deduttivo. Chiede
concentrazione e fatica, ed è sensibile alla cultura, si potenzia con
essa.
Per
evitare di farsi agganciare dagli ami bisognerebbe usare - in scelte
come, per esempio, quelle di voto - il pensiero lento, quello sensibile
alla cultura. Così non è per un gran numero di persone.
Quanto
detto finora ha una valenza generale, per tutti gli esseri umani. Nel
nostro paese, purtroppo, ha un'aggravante. È un tema che altre volte ho
sottolineato: deteniamo il record mondiale, già di per sé poco
invidiabile, di numero di auto e di cellulari/smartphone pro capite, e
deteniamo anche un record, ancor meno invidiabile, che ci vede a fondo
scala in Europa, quello di un infimo numero di libri e giornali letti.
Nel 2016, dati Istat,
sono state circa 33 milioni le persone con più di 6 anni che non hanno
letto nemmeno un libro di carta in un anno, cioè il 57,6% della
popolazione. Secondo l'Audipress, sono 18,5 milioni i lettori di
quotidiani cartacei e online. Sono dati scoraggianti, tra i peggiori
dell'Unione Europea. Se a questi numeri aggiungiamo la percentuale di
analfabetismo funzionale, o di ritorno, che si aggira attorno al 45-50%,
possiamo ben capire che c'è una massa di persone che è pronta ad
abboccare a qualunque amo. Rimanendo in metafora, non serve neanche
innescare gli ami, abboccano da soli.
Gianni
Riotta - uno dei primi a occuparsi di fake news, già nel 2010, in
un'inchiesta intitolata "Il lato oscuro della rete", pubblicato su Il
Sole 24 ore, come ricordato pochi giorni orsono su "Democratica"
- mette provocatoriamente in relazione questi dati sulla scarsa cultura
degli italiani con le loro scelte politiche. Una tesi che, alla luce
delle evidenze della scienza del comportamento, mi vede molto d'accordo:
si comincia come "creduloni", poi - per effetto della polarizzazione e
grazie alle camere ecoiche (echo chambers) - si diventa
"credenti". I credenti, per definizione credono, indipendentemente dalle
evidenze, o dalla mancanza di evidenze, che vengono liquidate con
teorie post hoc e ad hoc: le pseudo-spiegazioni complottistiche.
Pertanto, che
fare? La cultura non è l'antidoto alla proliferazione di fake news, non
è un antibiotico specifico, però aiuta, potenziando il sistema
immunitario culturale. Peraltro, non ha effetti collaterali negativi -
anzi! - sulla società. La censura non solo non serve, ma sarebbe una
soluzione peggiore del male, poiché ucciderebbe la democrazia della rete
senza guarirne la malattia.
Altro
è il concetto di responsabilità, a tutti i livelli, sia di chi fabbrica
sia di chi diffonde falsità, menzogne, calunnie e diffamazioni. Si
tratta di fare un salto di paradigma in questo campo, una sorta di
responsabilità legale 2.0.
Inoltre,
non bisogna dimenticare che i siti di fake news, oltre che di
attenzione, sono anche dei generatori di guadagno, come dimostrano
alcuni famosi siti nostrani: le conseguenze rinforzanti mantengono a
lungo i comportamenti.
Dobbiamo
puntare sull'educazione e sulle generazioni future, facendo tesoro dei
molti errori fatti finora. Non è semplice, è costoso, richiede tanto
tempo e competenze specifiche - in un'epoca in cui la competenza viene
irrisa e calpestata - ma è l'unica strada. Ed è percorribile.
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Tra le notizie recenti che, magari, vi sono sfuggite potrebbe
esserci la legge approvata dal Senato su proposta del senatore Cirenga:
134 miliardi di euro per trovare un posto di lavoro ai parlamentari non
rieletti. La Camera Alta della
Repubblica ha stanziato la cifra con 257 voti a favore e 165 astensioni.
Come capirete, in questa stagione di corruzione politica e sdegno
popolare contro i privilegi della «casta» l’improvvida iniziativa del
senatore Cirenga ha sollevato online, nel cosiddetto «popolo del web»,
un’ondata di proteste. In oltre 36 mila condividono l’appello per
denunciare Cirenga, la sua pagina Facebook, con tanto di foto, è
consultata con irritazione, peccato però che non ci si accorga - Google
sta lì per questo - che nessun senatore si chiama Cirenga, che il sito
del Senato non reca notizia della legge, che la somma dei voti è 422,
mentre i senatori son 315 (più i senatori a vita). 134 miliardi di euro
sono un decimo circa del Prodotto interno italiano, cassaforte eccessiva
perfino per l’ingordigia dominante.
Perché in tanti abboccano a una notizia palesemente falsa, «una bufala» in gergo, come mai la Rete diffonde e discute sui siti un’ovvia finzione, come si informano online gli utenti e come distinguono tra testate con un controllo professionale dei testi e homepage dove invece ciascuno posta quel che gli aggrada senza controlli?
Secondo una ricerca 2014 del World Economic Forum, curata dalla professoressa Farida Vis dell’Università di Sheffield, tra i dieci pericoli maggiori del nostro tempo c’è «la diffusione di false notizie», capaci di disorientare il dibattito politico dai temi reali, la Borsa e i mercati dall’economia concreta e sviare l’opinione pubblica su miti come l’Aids non legato all’Hiv, i vaccini che diffondono autismo, le scie chimiche degli aerei seminatrici di morte. Come dunque individuare le fonti inquinate dell’informazione e chi sono i cittadini più esposti alle fole?
Se lo chiede un team di studiosi della Northeastern University di Boston, dell’Università di Lione e del Laboratory of Computational Social Science (CSSLab) del Centro Alti Studi Imt di Lucca (Delia Mocanu, Luca Rossi, Qian Zhang, Màrton Karsai, Walter Quattrociocchi) in una ricerca dal titolo rivelatore: «Collective Attention in the Age of (Mis)information», l’attenzione collettiva nell’età della (dis)informazione (http://goo.gl/6TxVfz).
Dai risultati, purtroppo, si evince che l’attenzione pubblica è scarsa e la disinformazione potente al punto che spesso è considerata dai cittadini pari all’informazione classica. Per molti utenti della Rete il tempo dedicato ai miti e quello speso analizzando i fatti si equivalgono. Chi comincia a bazzicare siti dove complotti, false notizie e deformazioni vengono creati in serie, rapidamente si assuefà e perde senso critico. Lo studio conferma una delle caratteristiche più infide del nostro tempo online: su testate satiriche o forum aperti, i «trolls», utenti anonimi che diffondono battutacce, menzogne, grossolane e comiche esagerazioni, vengono spesso equivocati per fonti autorevoli e il loro teatrino scambiato per realtà.
Un esempio recente, quando la voce dell’enciclopedia Wikipedia relativa al filosofo Manlio Sgalambro è ritoccata nelle ore della sua morte, rendendo l’austero studioso «autore di “Madama Doré” e “Fra Martino Campanaro”». All’assurda «trollata» credono persone comuni e autorevoli testate.
Lo studio ha seguito oltre 2.300.000 persone su social media come Facebook durante la campagna elettorale politica italiana del 2013 e i risultati negano la tesi popolare dell’«intelligenza collettiva» che animerebbe la Rete, provando invece l’esistenza di un iceberg grigio di «credulità collettiva». I seguaci delle «teorie del complotto» credono che il mondo sia controllato da persone, o organizzazioni, onnipotenti, e interpretano ogni smentita alle proprie opinioni come una manovra occulta degli avversari.
La ricerca prova come la dinamica sociale di Facebook, mischiando in modo apparentemente neutrale vero e falso, finisca per affermare le menzogne sulle verità. Gli attivisti online via Facebook evitano di confrontarsi con fonti che contraddicono le loro versioni, persuasi che spargano falsità per interessi spregevoli. Il dibattito langue, le versioni diverse non trovano una sintesi, i «trolls» spacciano sarcasmi per notizie.
Preoccupazione suscita la par condicio online tra fonti prive di autenticità e siti professionali, chi cerca informazioni finisce per dedicare la stessa attenzione a bufale tipo «Senatore Cirenga» e alla vera riforma del Senato, spesa pubblica, governo.
«Ex falso sequitur quodlibet» è massima della logica tradizionale, attribuita spesso al filosofo Duns Scoto, ma in realtà di autore ignoto: da premesse fasulle potete far derivare sia proposizioni «vere» che «false», con la terribile conseguenza di non potere distinguere bugie e realtà. Il web, dimostra la ricerca sulla (Dis)informazione, può trasformarsi in guazzabuglio «Quodlibet» alla Cirenga. E un cittadino, quando si avvia per la strada dei miti online, tende a perdersi nel labirinto delle bugie: chi è disposto a comprare la bubbola dell’Aids che non deriva dal virus Hiv, deduce poi che l’Aids è stato creato dal governo americano per decimare gli afro-americani, e così via via per l’11 settembre, il Club Bilderberg che controlla l’economia mondiale, le scie chimiche: date uno sguardo al web, edicole e talk show...
Twitter @riotta
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Il potere della (Dis)informazione nell’era della grande credulità
Ricerca: in Rete sempre più difficile distinguere tra notizie reali e menzogne
La pagina Facebook dell’inesistente senatore Cirenga
Pubblicato il
22/03/2014
Ultima modifica il 22/03/2014 alle ore 15:24
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Perché in tanti abboccano a una notizia palesemente falsa, «una bufala» in gergo, come mai la Rete diffonde e discute sui siti un’ovvia finzione, come si informano online gli utenti e come distinguono tra testate con un controllo professionale dei testi e homepage dove invece ciascuno posta quel che gli aggrada senza controlli?
Secondo una ricerca 2014 del World Economic Forum, curata dalla professoressa Farida Vis dell’Università di Sheffield, tra i dieci pericoli maggiori del nostro tempo c’è «la diffusione di false notizie», capaci di disorientare il dibattito politico dai temi reali, la Borsa e i mercati dall’economia concreta e sviare l’opinione pubblica su miti come l’Aids non legato all’Hiv, i vaccini che diffondono autismo, le scie chimiche degli aerei seminatrici di morte. Come dunque individuare le fonti inquinate dell’informazione e chi sono i cittadini più esposti alle fole?
Se lo chiede un team di studiosi della Northeastern University di Boston, dell’Università di Lione e del Laboratory of Computational Social Science (CSSLab) del Centro Alti Studi Imt di Lucca (Delia Mocanu, Luca Rossi, Qian Zhang, Màrton Karsai, Walter Quattrociocchi) in una ricerca dal titolo rivelatore: «Collective Attention in the Age of (Mis)information», l’attenzione collettiva nell’età della (dis)informazione (http://goo.gl/6TxVfz).
Dai risultati, purtroppo, si evince che l’attenzione pubblica è scarsa e la disinformazione potente al punto che spesso è considerata dai cittadini pari all’informazione classica. Per molti utenti della Rete il tempo dedicato ai miti e quello speso analizzando i fatti si equivalgono. Chi comincia a bazzicare siti dove complotti, false notizie e deformazioni vengono creati in serie, rapidamente si assuefà e perde senso critico. Lo studio conferma una delle caratteristiche più infide del nostro tempo online: su testate satiriche o forum aperti, i «trolls», utenti anonimi che diffondono battutacce, menzogne, grossolane e comiche esagerazioni, vengono spesso equivocati per fonti autorevoli e il loro teatrino scambiato per realtà.
Un esempio recente, quando la voce dell’enciclopedia Wikipedia relativa al filosofo Manlio Sgalambro è ritoccata nelle ore della sua morte, rendendo l’austero studioso «autore di “Madama Doré” e “Fra Martino Campanaro”». All’assurda «trollata» credono persone comuni e autorevoli testate.
Lo studio ha seguito oltre 2.300.000 persone su social media come Facebook durante la campagna elettorale politica italiana del 2013 e i risultati negano la tesi popolare dell’«intelligenza collettiva» che animerebbe la Rete, provando invece l’esistenza di un iceberg grigio di «credulità collettiva». I seguaci delle «teorie del complotto» credono che il mondo sia controllato da persone, o organizzazioni, onnipotenti, e interpretano ogni smentita alle proprie opinioni come una manovra occulta degli avversari.
La ricerca prova come la dinamica sociale di Facebook, mischiando in modo apparentemente neutrale vero e falso, finisca per affermare le menzogne sulle verità. Gli attivisti online via Facebook evitano di confrontarsi con fonti che contraddicono le loro versioni, persuasi che spargano falsità per interessi spregevoli. Il dibattito langue, le versioni diverse non trovano una sintesi, i «trolls» spacciano sarcasmi per notizie.
Preoccupazione suscita la par condicio online tra fonti prive di autenticità e siti professionali, chi cerca informazioni finisce per dedicare la stessa attenzione a bufale tipo «Senatore Cirenga» e alla vera riforma del Senato, spesa pubblica, governo.
«Ex falso sequitur quodlibet» è massima della logica tradizionale, attribuita spesso al filosofo Duns Scoto, ma in realtà di autore ignoto: da premesse fasulle potete far derivare sia proposizioni «vere» che «false», con la terribile conseguenza di non potere distinguere bugie e realtà. Il web, dimostra la ricerca sulla (Dis)informazione, può trasformarsi in guazzabuglio «Quodlibet» alla Cirenga. E un cittadino, quando si avvia per la strada dei miti online, tende a perdersi nel labirinto delle bugie: chi è disposto a comprare la bubbola dell’Aids che non deriva dal virus Hiv, deduce poi che l’Aids è stato creato dal governo americano per decimare gli afro-americani, e così via via per l’11 settembre, il Club Bilderberg che controlla l’economia mondiale, le scie chimiche: date uno sguardo al web, edicole e talk show...
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