Analizziamo uno dei
principali mezzi di comunicazione di massa secondo il McLuhan:
LA PUBBLICITA’
Definita in modo brutale,
la pubblicità è un rozzo tentativo di estendere i principi della
meccanizzazione all’intelletto umano ponendosi come meta ideale
un’armonia programmata di tutti gli impulsi, desideri e le
aspirazioni della società usando mezzi artigianali con il fine tutto
elettronico di programmare una sorta di coscienza collettiva.
Se per assurdo riuscisse a
far collimare la produzione con il consumo in un’armonia
programmata, ecco che essa sparirebbe, distrutta dal suo stesso
successo.
Nel pieno della polemica
tutta europea sulla scientificità della psicoanalisi, Freud e Jung
furono invitati in America per un giro di conferenze per illustrare
la nuova disciplina.
Mentre l’Europa
polemizzava, l’America applicava questi nuovi principi, tanto che
prima di ripartire per l’Europa lo stesso Freud si accorse di cosa
stesse succedendo e scrisse una lettera allarmata in cui descriveva
la tecnica tutta americana di nominare un prodotto per radio
associandolo con una canzone. La ripetizione di questa accoppiata,
faceva sì che dopo un certo tempo al pubblico bastava ascoltare il
motivo musicale perchè richiamasse alla mente il prodotto.
“Abbiamo portato
la peste su questo continente” dichiarò. Aveva scoperto uno dei
principi fondamentali della pubblicità e cioè che basta ripetere
all’infinito la più piccola unità modulare in modo rumoroso e
ridondante per ottenere una forma di memoria e persuasione, con
fenomeni già riscontrati da Pavlov (i riflessi condizionati) che
sarebbero poi stati applicati con le tecniche del lavaggio del
cervello.
L’illustrazione, che
aveva accompagnato la stampa fino dai primordi, con la nuova tecnica
della fotoincisione, applicata alla fine dell’800, scoprì la
funzione della fotografia quale coadiuvante non solo
dell’informazione, ma “aggiustata” dai pubblicitari acquisì il
carattere di icona onnicomprensiva. Le icone raggruppano in una
minuscola porzione di spazio una vasta area di esperienza umana,
tendono quindi a staccarsi dall’immagine del prodotto propria del
consumatore per l’immagine del processo cara al produttore. In
quest’intreccio addirittura si delinea il consumatore con funzione
di produttore.Questo avviene quando la comunicazione pubblicitaria è
talmente satura per cui il prodotto non conta più, ma conta una
sorta di sistema di vita raggiunto con il consumo di un certo
prodotto. Per intenderci, non conta più dissetarsi bevendo Cocacola,
ma Cocacola è un marchio, con i suoi negozi, la sua distribuzione,
che sforna prodotti differenti il cui acquisto, un cappellino, un
fazzoletto o una maglietta, attestano la propria appartenenza al
“mondo cocacola”.
Non c’è nulla di più
rassicurante che consumare prodotti con marchi conosciuti.
Negli anni settanta si
impose “la griffe” cioè il marchio di stilisti affermati che non
solo rassicuravano i propri consumatori firmando i capi di vestiario
– che sono la loro specializzazione – ma invasero il mercato
firmando qualsiasi cosa, dalle piastrelle alle tazze dei cessi, dalle
carrozzerie ai profumi. Questa sorta di garanzia data da una persona
popolare o addirittura celebre, diede impulso alla tecnica del
testimonial, cioè di un personaggio famoso che consumando un certo
prodotto ne certifica la qualità.
La pubblicità è una
forma d’arte collettiva con cui menti eccelse e altamente
“creative”
usano tecniche sempre più
sofisticate per far vendere prodotti. In Occidente iniziò con l’
Agorà laikì, antica
tradizione orientale della piazza prospiciente il Tempio dove si
faceva il mercato, che nella Grecia di Pericle divenne pure luogo
d’incontri e di discussioni.
Il Tempio era il luogo
dove affluivano le persone da tutta la regione e la funzione della
pubblicità primordiale era quella di far conoscere il luogo dove
erano disposte le merci da vendere oppure con le insegne dei negozi.
Camminando per Pompei oggi ci si imbatte in un’insegna che ci
illumina su detta funzione. Essa recita:
S A T O R
A R E P O
T E N E T
O P E R A
R O T A S
Che si potrebbe leggere
(la traduzione è controversa):
“L’artigiano
Arepo fa la manutenzione delle ruote” laddove la novità del
messaggio non è tanto l’annuncio bensì la forma, un palindromo
complesso, che si ottiene in qualsiasi direzione lo si legga, tipico
proprio di un messaggio pubblicitario che vuole attirare su di sè
l’attenzione e persino stupire.
Con il Medio Evo il
mercato si teneva alle porte della città, nei pressi delle mura
perimetrali e l’incremento delle vendite si ebbe con la comparsa
dei venditori ambulanti che attiravano l’attenzione gridando per le
stradine medievali le qualità del prodotto, ne illustravano le
proprietà, negoziavano il prezzo, superavao le ultime obiezioni ed
effettuavano la vendita, che se notate sono le medesime fasi della
vendita che vennero adottate dai venditori Fuller che in America
andavano porta a porta a vendere le spazzole dopo la crisi del 1929 e
che da noi vennero in seguito adottate negli anni ’70 dai venditori
di enciclopedie che tanto hanno camminato per la diffusione della
lettura nel nostro Paese.
Come ogni grattacielo è
costruito sopra le proprie fondamenta, così la pubblicità è
costruita partendo dalle basi sopra descritte per presentarsi oggi
come comunicazione che riassume la fatica, l’attenzione, gli
esperimenti, l’ingegno e l’abilità di molte persone. Nel
messaggio pubblicitario odierno confluiscono maggiori riflessioni e
cura nella composizione di qualsiasi articolo giornalistico che
appaia sulla medesima pagina.
Ogni messaggio
pubblicitario è la drammatizzazione più vigorosa dell’esperienza
collettiva di una comunità e l’insieme di detti messaggi è una
inarrivabile accumulazione di materiali sulle esperienze, paure e
desideri di un’intera comunità, perchè se la comunicazione
pubblicitaria si allontanasse dal centro di queste esperienze
perderebbe tutto il proprio effetto afflosciandosi come un palloncino
rotto.
Se analizzato
consapevolmente, il messaggio pubblicitario appare quasi grottesco
nel suo servirsi delle esperienze basilari e più collaudate di una
comunità per ricreare un mondo omogeneizzato e esistente solo
nell’immaginario collettivo, con massaie bionde e ben pettinate,
che rientrano a casa da attività ludiche (pure se rientrano dal
lavoro sono sempre radiose), dove le attendono bimbi improbabili e
mariti sorridenti, un poco come se la vita reale fosse riflessa nello
specchio d’Alice, una sorta di mondo virtuale a cui tutti aspiriamo
nel nostro inconscio inesorabilmente compromesso dal sonnambulismo
pre-ipnotico in cui ci siamo cacciati con il nostro alfabetismo.
E’ difficile che culture
orali e tribali quali quelle emergenti, accettino consapevolmente
queste tecniche messe in atto per migliorare lo scambio di prodotti e
di servizi, ed ecco che la pubblicità si trasforma in propaganda, il
cui fine non è quello di incrementare i consumi ma di pianificare la
produzione e il mantenimento del potere. E’ questa una delle
ragioni per cui il nazista, tornato allo stato tribale grazie alla
propaganda politica, si sentisse superiore alla rimanente società di
cosumatori.
La pubblicità ha spostato
la nostra cultura da ideali personali all’offerta di un sistema di
vita che è per tutti o per nessuno e questo con argomenti frivoli o
banali. E non importa se qualcuno dice: “La pubblicità? A me non
importa perchè non la guardo” perchè questi sono i sonnambuli
massmediologici più pericolosi per la comprensione del fenomeno.
Quando il cinema degli
Stati Uniti divenne un fenomeno d’esportazione, tutta la società
americana si riversò dentro la pellicola in un unico, continuo spot
pubblicitario. Si cominciò a distinguere tra le case dei buoni e dei
cattivi, le prime con sale da pranzo dentro le quali arrivava il
protagonista e si serviva da bere in bicchieri smerigliati, togliendo
ottimo bourbon da bottiglie parimenti smerigliate, mentre i cattivi
aprivano un vecchio frigorifero in una cucina angusta per bere
direttamente dalle lattine della birra...
La stessa funzione oggi
viene svolta dalle telenovelas che ipnotizzano la civiltà
sudamericana (e non solo essa). Sono stato un testimone oculare a
Cuba, paese dichiaratamente contrario ai consumi, dove in una
telenovela brasiliana “La signora del destino” i buoni erano
tutti bianchi e benchè fossero una famiglia popolana, abitavano in
una casa da qualche milione di dollari, vestivano come modelli,
consumavano prodotti sceltissimi. L’unico cattivo era un nero,
tanto cattivo che tutti tirarono un sospiro di sollievo quando venne
ammazzato. Bene, nella cucina di questo tizio, le pentole erano tutte
ammaccate, nere di fuliggine e accatastate in qualche maniera. Nella
casa dei buoni, invece, le pentole erano d’acciaio inossidabile,
tutte linde e poste in ordine. Bene, ricordo nella casa dove vivevo,
che a poco a poco, con indicibili sacrifici economici, la famiglia
che mi ospitava cominciò a comprare pentole d’acciaio al mercato
nero, e ci volle poco perchè dette pentole comparissero anche nelle
“tiendes” dove si vendevano merci pagabili solo con CUC, la
moneta speciale che ha sostituito il dollaro.
A lungo andare la
pubblicità di dimostra una forma autodistruttiva di pubblico
divertimento, e se la ripetizione fino alla nausea di slogan tipo:
“Potrete finalmente stirare le camicie senza odiare vostro marito”
può in un primo momento imporre il prodotto, dopo un certo tempo
perde la propria efficacia a meno che non si inventi un’altra
formula più ammaliante, più convincente, più spettacolare per
ribadire il concetto. Si sa che a lungo andare questa continua
iperbole diventa autodistruttiva ed ecco che la pubblicità ha
inventato un nuovo modo di comunicare: non più il consumo del
prodotto, ma l’importanza della fabbrica o meglio del LOGO da cui
sono derivate le più recenti complicazioni, dalla globalizzazione,
al lavoro minorile nel Terzo Mondo, argomenti trattati con estrema
chiarezza da molti autori contemporanei.
(Una su tutte: Naomi Klein
e il suo celeberrimo NO LOGO)
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