lunedì 20 aprile 2020

DATI PERSONALI

Chi raccoglie e vende (senza dirci nulla) i nostri dati personali


Natali_Mis via Getty Images

La vicenda Facebook/Cambridge Analytica che ha imperversato sui media di tutto il mondo, ha posto all'attenzione del mondo intero il problema dei nostri dati sui social e della raccolta indiscriminata che se ne fa a fini di sfruttamento commerciale o politico.
I dati personali sono, come è noto, il motore dell'economia digitale. Sono raccolti e rivenduti all'ingrosso o al dettaglio, in forma aggregata o in forma personalizzata e tarata sul singolo individuo.
Il mercato di riferimento è servito da un esercito di società che in tutto il mondo raccolgono, organizzano e confezionano i dati relativi alle nostre consultazioni dei siti internet, agli acquisti di ogni genere che effettuiamo, alle relazioni sui social, alle nostre proprietà, ai processi giudiziari cui siamo stati eventualmente sottoposti, al nostro stato civile, ai figli, alla fascia di reddito, alle preferenze politiche, religiose, sessuali e tanto altro.
Queste società registrano tutto ciò che facciamo, prendendo nota e organizzando le tracce che lasciamo dietro di noi, dal momento che ormai quasi tutte le attività sono online. Perché fanno questo e perché ciò che fanno vale tanto?
Perché i dati raccolti su ciascuno di noi possono rilevare anche gli aspetti più nascosti della nostra personalità, cose che non confideremmo neanche a un familiare, e tutti questi dati vengono raccolti da mani estranee (a nostra insaputa) e combinate con altre migliaia di dati che ci riguardano e che ricostruiscono la nostra personalità.
Naturalmente, la semplice raccolta di questa immensa mole di dati non è sufficiente. È come estrarre il petrolio grezzo. E il petrolio ha bisogno di ulteriore trattamento per diventare benzina e far aumentare significativamente il proprio valore di mercato.
Così è per i dati. Devono essere trattati con attività di Analytics, per essere organizzati e ottimizzati per dare luogo a profili emotivi e comportamentali quanto più possibile affidabili in base ai dati raccolti. Essi sono trattati da software di intelligenza artificiale, che valorizza ogni aspetto del materiale raccolto, collocandolo in un contesto coerente.
Quando poi quelle elaborazione effettuate da software di intelligenza artificiale vengono coniugate con le applicazioni di Machine Learning, ovvero di software che apprendono altre funzioni di calcolo mentre effettuano quelle per cui sono state programmate, allora chi è interessato a voi (perché ha raccolto i vostri dati o li ha acquistati) potrà avere anche delle previsioni comportamentali sulle vostre attitudini future. Il che allarma e non poco.
Del resto, lasciar tracce è inevitabile, il problema nasce proprio quando qualcuno annota ogni dettaglio della nostra vita e ne vende i contenuti a terzi, a nostra insaputa ovvero senza neanche informarci dell'uso che si farà di quelle informazioni che ci riguardano.
Nel caso di Facebook, Google o Amazon, per citare tre giganti del web, le informazioni che diamo loro riguardano ogni aspetto anche emotivo della nostra vita e servono prevalentemente a fini di sfruttamento e indirizzamento della pubblicità (anche se non possiamo sapere a chi vendono le informazioni di cui dispongono e che uso questi ne farà).
Chi userà questi dati potrà proporre un prodotto (commerciale o politico) avendo quasi la certezza dell'interesse del destinatario. Un business che vale una fortuna, perché può vantare di fatto la proprietà dei gusti, delle attitudini, dei segreti, della vita delle persone.
Facebook, per esempio, raccoglie i profili di quasi 2 miliardi di persone e può agevolmente venderli ricavando cifre da capogiro. D'altra parte, a cosa si dovrebbe la capitalizzazione di Borsa di oltre 500 miliardi di dollari di Facebook se non al valore dei dati che raccoglie, dal momento che tutto il resto della società è fatto giusto da data center e software, asset patrimoniali di scarso valore se si considera la capitalizzazione della società.
Il fenomeno della compravendita dei dati, va detto, non è nuovo ed è precedente a internet. È vecchio di alcuni decenni ed è nato negli Usa per esigenze di marketing, di prevenzione delle frodi e di affidabilità del credito.
Con lo sviluppo di internet tutto si è moltiplicato all'ennesima potenza, ma con un comune denominatore: l'assoluta mancanza di trasparenza nella raccolta, gestione e valorizzazione dei dati personali raccolti. A svolgere tale ruolo troviamo decine e decine di migliaia di società in tutto il mondo, alcune delle quali con proprie filiali in molti paesi, per le attività eminentemente nazionali. Intanto vediamo quali sono le più importanti nel mondo.
Acxiom.
È forse la più importante in assoluto. Ha iniziato come società demografica per poi spostarsi sulla raccolta di dati a fini politici. Grazie ad accordi con banche e negozianti è diventata, nei primi anni Ottanta, leader mondiale nel direct marketing. Ha i profili di quasi 1 miliardo di persone e serve oltre 8.000 clienti in tutto il mondo.
A fronte delle proteste di opinione pubblica sull'uso dei dati raccolti (in Usa non vi sono regole forti come in Europa sull'uso dei dati personali), Acxiom ha reso disponibile un sito attraverso il quale si può verificare l'esistenza dei propri dati personali raccolti ed eventualmente chiedere la cancellazione (senza richieste del genere la loro compravendita è certa).
Equifax.
È la più antica in assoluto, essendo stata fondata nel 1899. Alla ribalta della cronaca alcuni mesi fa per l'assalto hacker di cui è stata vittima, che ha fruttato il furto dei dati personali di oltre 230 milioni di persone. Negli anni Settanta fu al centro di una polemica per una procedura offerta sul mercato, fondata sul principio che alcune attitudini comportamentali, quali ad esempio quelle sessuali potessero condizionare l'affidabilità nella restituzione dei prestiti bancari. Possiede informazioni dettagliate su oltre 1 miliardo di persone e fattura oltre 3 miliardi di dollari.
Corelogic.
Altro marchio top. Attivo prevalentemente nei mercati di lingua inglese, è specializzato nei servizi immobiliari e nella valutazione dei profili individuali per l'assegnazione di mutui. Custodisce una banca dati con quasi 1 miliardo di transazioni immobiliari e circa 100 milioni di file di assegnazioni di mutui.
Il mercato italiano dei dati ha un consistente valore, pur considerando le differenti valutazioni in base alla valorizzazione delle attività solo italiane o quelle effettuate sulla popolazione italiana anche da società che raccolgono i dati dall'estero (tutti i giganti del web, per esser chiari). Si va da 1 miliardo circa dell'Osservatorio PoliMi a oltre 4,6 miliardi dell'IDC (che ha svolto nel dicembre 2016 una ricerca sull'argomento su incarico della Commissione europea).
Naturalmente la lista delle società più grandi al mondo è particolarmente corposa: DataLogix, Epsilon Data Management, Fair Isaac, Lexis Nexis, TransUnion, Intelius, Experian, Harte-Hanks e tante altre).
Se poi guardiamo all'Europa, secondo IDC il mercato dei dati vale 60 miliardi di euro (2016), con una previsione di crescita fino a 106 miliardi di euro entro il 2020 e coinvolge oltre 255mila aziende (360mila entro il 2020).
Questo mercato, nelle mani dei giganti del web e di tante altre società (a cui oggi si aggiungono anche quelle cinesi), dovrà fare i conti con l'entrata in pieno vigore, il prossimo 25 maggio, del Regolamento europeo sulla protezione dei dati personali (GDPR), che imporrà maggiori tutele per i cittadini europei e regole più chiare per tutti coloro che tratteranno dati relativi a cittadini europei.
È tuttavia singolare che qualsiasi considerazione sul mercato dei dati, sia che si tratti di un convegno sia di una trasmissione televisiva, consideri tale mercato come un luogo di incontro tra coloro che raccolgono (per vendere) i dati personali e coloro che li cercano (per acquistarli).
È uno schema corretto quanto all'incontro tra domanda e offerta, che però trascura l'elemento più importante: il fornitore dei dati, che sta esattamente nel mezzo e che viene debitamente tenuto all'oscuro di tutto in un contesto di quasi totale opacità e mancanza di trasparenza.
I dati saranno anche il petrolio del XXI secolo, ma occorre ribadire che il pozzo dei propri dati personali è di proprietà di ciascuno di noi.
Ed è bene che di questo tenga conto sia la domanda che l'offerta del mercato dei dati.

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Scandalizzati da Facebook? I vostri dati sono in vendita da anni

di Alberto Magnani
Mark Zuckerberg è il fondatore di Facebook
Mark Zuckerberg è il fondatore di Facebook
3' di lettura
L'aspetto più clamoroso del datagate, lo scandalo dei dati ceduti da Facebook, è che non c'è nulla di clamoroso. Dietro al comportamento di Zuckerberg e di altri colossi tech, Google in testa, c'è un'industria che fa parte della nostra quotidianità anche a riflettori spenti. Di cosa si parla? Di quelli che vengono chiamati «il petrolio» della nuova economia: i dati, le informazioni sui cittadini e consumatori immagazzinate con (o senza) il consenso dei diretti interessati. Attivando un account Facebook abbiamo scoperchiato al colosso di Zuckerberg una lunga serie di dettagli sul nostro conto, disseminati anche con gesti inconsapevoli come un “like” sui post di amici o la ricerca di un negozio fuori Milano.
Ma basta solo dimenticarsi di disattivare la posizione sul proprio smartphone per consegnare a Google Maps, il sistema di mappatura di Google, un itinerario millimetrico dei nostri spostamenti. Come in un diario involontario, ad uso e consumo di aziende e inserzionisti interessati a colpire l'utente con messaggi calibrati su misura. La falla si chiude ogni volta che spegniamo lo smartphone o ci ricordiamo di effettuare il log-out? Non proprio, perché offriamo informazioni ogni volta che ci avviciniamo a qualcosa di connesso. Dal vecchio Pc di casa agli elettrodomestici agganciati al Web grazie alla famosa rivoluzione dell'Iot, l'internet of things che fa entrare la Rete in oggetti di uso quotidiano.
Il mercato dei dati: i numeri ufficiali. E quelli nascosti
Il mercato dei dati si divide, come buona parte dei settori economici, in un mercato legale e in uno illegale. Quello legale si aggira su numeri importanti, anche se persino le stime più eclatanti vengono considerate riduttive dagli addetti ai lavori. Idc, una società di consulenza statunitense, prevede un giro d'affari in ascesa da 130 miliardi nel 2016 a oltre 203 miliardi nel 2020, con un tasso di crescita annuo composto (la crescita percentuale media) dell'11,7%. Altre aziende di consulenza abbassano o alzano le stime, ma in entrambi i casi si resta nell'ottica di un business globale e in fortissima espansione. «Che esista un mercato dei dati legittimo è un dato di fatto. Facebook è gratis perché il suo prodotto siamo noi, visto che vendono informazioni a nostro riguardo agli investitori. In maniera legale», spiega Gabriele Faggioli, responsabile dell'Osservatorio Information security e privacy del Politecnico di Milanoe presidente del Clusit (associazione italiana per la sicurezza informatica). Persino il caso di Cambridge Analytica è in bilico, e si candida a fare giurisprudenza: non si è trattato di una classica data breach, violazione di dati, ma di una «cessione considerata illegittima - dice Faggioli - Vedremo cosa stabiliranno i giudici».
E allora, quando si sconfina nel reato? Ufficialmente, si entra nel mercato illegale di dati se le informazioni vengono elaborate e cedute senza un consenso esplicito. Ufficiosamente, la compravendita di informazioni sfugge ai paletti legislativi fissati finora. «La gente non continua forse a evadere le tasse o spacciare stupefacenti anche in presenza di leggi? - si chiede Faggioli - Vuol dire che la repressione non fa da deterrente, anche se un impianto sanziatorio importante aiuta». Magari un «impianto» come quello della Gdpr, il regolamento europeo sui dati che avrà efficacia dal prossimo 25 maggio. Il testo prevede una multa pari a picchi del 4% del turnover annuo di un'azienda, da pagare per ogni giorno di violazione. Esercitata su colossi come Facebook e Google, si tradurrebbe in sanzioni nell’ordine dei miliardi di dollari.
Perché tenersi fuori è (quasi) impossibile
Parte della colpa, però, va ai «prodotti» di social network e aziende del Web. Ovvero gli utenti, distratti su quelli che sono diventati obblighi più di igiene che di privacy: negare l’accesso alla propria posizione, non diffondere documenti e foto private, ricordarsi anche solo il fatidico log-out quando si naviga online. Sul piatto non vengono messi solo i nostri dati, ma l'elaborazione che ne viene svolta: «Un conto è comprare cibo per cani, un conto è sapere che ho un cane e bombardarmi di pubblicità in proposito», fa notare Faggioli. L’attenzione dovrebbe alzarsi perché, nell'era dell'internet of things, le finestre su di noi si aprono ovunque: dal frigorifero alla pentola «connessa» che ci indica i minuti di cottura e, nell'attesa, profila i nostri gusti alimentari. Gli accorgimenti di base salvano da parte delle intrusioni. L'importante è non illudersi di essere completamente al sicuro: «A meno che non si raggiunga la disconnessione completa, siamo sempre esposti - dice Faggioli - Per il resto, c'è poco da fare. Se “craccano” i dati della mia banca, non lo posso impedire io».

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