mercoledì 15 aprile 2020

DE-GLOBALIZZAZIONE?

PRIMUM VIVERE, DEINDE GLOBALIZZARE - GUERRERA: “STIAMO PER ENTRARE IN UN INTENSO PERIODO DI "DE-GLOBALIZZAZIONE". IL VIRUS POTREBBE PORTARE ALLA FINE DI UN'ERA DI ESPANSIONE NEI NOSTRI ORIZZONTI ECONOMICI, CULTURALI E FISICI. UN MOMENTO STORICO IN CUI LA SOPRAVVIVENZA CONTERÀ PIÙ DELL'ARRICCHIMENTO FINANZIARIO ED INTELLETTUALE” - LA RECESSIONE POTREBBE SPINGERE LE GRANDI AZIENDE AD AVERE MENO DIPENDENTI E PIÙ TECNOLOGIA...
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Francesco Guerrera per “la Stampa”

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Nel giorno in cui quasi tutti - politici, investitori, cittadini - volevano pensare al mondo dopo la quarantena del coronavirus. Nel giorno in cui i mercati si stavano godendo le parole di Cuomo, governatore dello Stato di New York, che a Pasquetta ha dichiarato: «Il peggio è passato». Nel giorno in cui la povera Italia ha fatto i primi, lenti, passi verso la riapertura, sono arrivati gli economisti a spegnere i primi barlumi di speranza.



Parole e numeri che fanno venire i brividi. Per chi guarda nella palla di cristallo del Pil mondiale, il parallelo è con la Grande Depressione degli anni '30. Lo ha detto chiaramente Gita Gopinath, la capo economista del Fondo Monetario Internazionale, che nel suo ultimo studio parla della prossima (e attuale) recessione come la peggiore contrazione dell' economia dai tempi del crac del 1929. Anzi peggio, perché nell'era della globalizzazione, questa flessione economica non lascerà scampo a nessun Paese.

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Il settore privato le dà ragione. JP Morgan, la più grande banca Usa, ieri ha messo da parte circa 7 miliardi di dollari per fare fronte al fatto che società e mutuatari non ce la faranno a pagare gli interessi durante una «severa recessione». E il mio amico Mohamed El-Erian, capo consigliere economico di Allianz, è andato oltre, dicendo al Financial News che c' è il rischio che l' economia mondiale cada in una vera e propria Depressione stile anni-30. «Credo che il mercato non abbia capito che non usciamo da questa crisi nello stesso punto in cui ci siamo entrati» ha detto El-Erian, un tipo pacato, non solito all' iperbole.



A differenza della crisi del 2008, il dilemma per politici e mercati non è solo economico, monetario e finanziario. Ci sono questioni morali, sanitarie e sociali di straordinaria importanza. È questa confluenza tra etica ed economia che rende le decisioni dei politici pressoché impossibili.


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Quando parlo con capitani d'industria e banchieri, li sento scalpitare per una riapertura al più presto. E' un sentimento comprensibile: il lockdown attuale ha messo l' conomia del pianeta in coma. Una prolungata assenza di attività produttive la ucciderebbe. Anche qui, le cifre sono allucinanti. Secondo l'Office of Budget Responsibility, l'organizzazione che fa i conti al governo britannico, il Regno Unito perderebbe il 35% del Pil se l' economia rimanesse rintanata in casa fino a giugno. Le conseguenze su disoccupazione, sperequazione sociale e fallimenti societari sarebbero senza precedenti.


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«Pensa ad un mondo senza British Airways e EasyJet» mi ha detto un finanziere. «Si può sopravvivere? Ok, ora pensa ad un mondo senza Boeing, Airbus e aeroporti. Ancora non convinto? Va bene, ora pensa ad un mondo senza nessuna industria manifatturiera, dove la gente non ha soldi per comprare i pochi beni che vengono prodotti: l'Apocalisse». Ma se si ascoltano i medici e gli scienziati, la ripartenza, anche graduale, comporta enormi rischi umani. Senza vaccini, senza test affidabili e senza la volontà politica di compromettere la privacy per fare controllare il contagio a Google, Apple e compagnia, i governi che riaprono le proprie economie giocheranno alla roulette russa.
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Qualsiasi cosa succeda - ed è possibile che nei prossimi mesi vedremo decisioni opposte da parte di diversi Paesi - una cosa è certa: stiamo per entrare in un intenso periodo di "de-globalizzazione". Il commercio mondiale, già in crisi per le tensioni sino-americane, crollerà dell' 11% quest' anno, secondo l' Fmi.

Per le società ciò significa passare da un lungo periodo in cui l' imperativo era la crescita di fatturato e profitti ad un periodo in cui la resilienza sarà all' ordine del giorno: meno impiegati, più tecnologia e concentrazione totale sul core business, le attività principali. Per il resto di noi, il virus potrebbe portare alla fine di un' era di espansione nei nostri orizzonti economici, culturali e fisici. Un momento storico in cui la sopravvivenza conterà più dell' arricchimento finanziario ed intellettuale. Nel 2020, sarà questo l' ago della bilancia tra Brutta Recessione e Grande Depressione.
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LA DITTATURA DEL VICINO È SEMPRE PIÙ VERDE – DOPO AVER FIRMATO L’ALLEANZA PER IL 5G CON LA CINA, PUTIN GUARDA AL CYBERSPAZIO DI XI JINPING COME AL MODELLO DA SEGUIRE: I PROVVEDIMENTI DI MOSCA HANNO COME OBIETTIVO LA CREAZIONE DI UNA “FRONTIERA DIGITALE”, IN GRADO DI SEPARARE IL WEB IN CIRILLICO DA QUELLO DEL RESTO DEL MONDO – PER CREARE UN WEB PARALLELO ALL'AUTORITÀ PER LE TELECOMUNICAZIONI VENGONO AFFIDATI AMPI POTERI PER…
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Angelo Allegri per “il Giornale”

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Era il giugno dell' anno scorso e per sancire l' accordo si mossero i due leader: furono il presidente russo Vladimir Putin e quello cinese Xi Jinping a benedire personalmente l' alleanza per il 5G tra Mts, uno dei maggiori gruppi telecom dell' ex Unione Sovietica, e Huawei, il colosso con sede a Shenzen. Da allora l' intesa ha dato i suoi primi frutti: nella zona di Mosca le sperimentazioni sono già iniziate.


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Da qualche anno i rapporti tecnologici tra i due Paesi nel campo del ciberspazio sono sempre più stretti e con la recente legge sulla regolamentazione di Internet, entrata in vigore nel novembre dell' anno, la Russia sembra aver individuato nella Cina anche un modello. I provvedimenti adottati a Mosca hanno come obbiettivo la creazione di una «frontiera digitale», in grado di separare il web in cirillico da quello del resto del mondo. Le nuove norme creano un meccanismo di sorveglianza sul trasferimento dei dati via Internet e un controllo centralizzato sull' infrastruttura fisica su cui essi viaggiano (reti e apparati tecnici).


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All' autorità per le telecomunicazioni, Roskomnadzor, diventata sempre più potente negli ultimi anni, vengono affidati ampi poteri per la disattivazione del Web in caso di emergenza. Sempre in caso di emergenza la Rete potrà essere di fatto staccata da quella internazionale, visto che i «service provider» avranno l' obbligo di evitare l' instradamento dei messaggi attraverso network situati al di fuori del territorio russo. I service provider infine dovranno installare «apparati tecnici per contrastare le minacce alla stabilità, alla sicurezza e all' integrità funzionale di Internet sul territorio della Federazione russa».
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La formulazione è abbastanza vaga e non si sa bene di che tipo di apparecchiature si tratta, ha commentato Alena Epifanova, analista del German Council on Foreign Relations, ente di ricerca non-profit con sede a Berlino, ma dalla legge si sa che sarà la stessa autorità a fornirle. L' ipotesi è che si tratti di strumenti utilizzabili per controllare il contenuto delle comunicazioni Internet, già previsti in un' altra parte delle nuove norme.


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La Russia tenta poi, con la nuova legislazione, un esperimento mai riuscito fino ad ora ad altri: la creazione di un sistema di denominazione dei siti (in termini tecnici Dns, Domain Name System) del tutto indipendente da quello attualmente in uso a livello internazionale. La spiegazione ufficiale è il tentativo di sfuggire all' aggressività americana, che attraverso l' Icann (per altro indipendente dal governo Usa) gestisce l' organizzazione attuale.


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Al di là delle dichiarazioni di principio contro il colonialismo a stelle e strisce, l' innovazione ha però senso, dice Alana Epifanova, «solo se il Paese opta per un isolamento completo e a lungo termine del proprio web», visto che i siti russi diventerebbero indisponibili negli altri Paesi e viceversa.



La strada, comunque, sembra tracciata, dice Alana Epifanova: «Nel prossimo futuro la Russia dovrà cooperare ancora più strettamente con la Cina per sviluppare tecnologie che le consentano di raggiungere i suoi obiettivi. Dovrà anche coordinare con il Paese asiatico la sua politica di Internet a livello internazionale».
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Il tema sollevato dai cinesi all' Itu di Ginevra, quello di un nuovo protocollo Internet che sostituisca quello utilizzato negli ultimi decenni (vedi l' articolo a fianco), sembra provare la tesi dell' analista del German Council of Foreign Relation. Tra le adesioni subito raccolte da Pechino c' è anche quella russa.
 

PENSAVAMO CHE INTERNET AVREBBE APERTO I REGIMI. INVECE SONO I REGIMI A CHIUDERE INTERNET (E AI GOVERNI OCCIDENTALI PIACE ASSAI) - LA CINA PROPONE ALL'ONU DI RIVEDERE LE REGOLE DEL WEB. PER DARE PIÙ POTERI DI CONTROLLO AI SINGOLI STATI. ORA CON IL TRACCIAMENTO DA CORONAVIRUS DAREMO LE NOSTRE VITE E CARTELLE CLINICHE IN MANO A GOVERNI E GIGANTI ONLINE, IL PASSO SUCCESSIVO…
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Angelo Allegri per “il Giornale

La prima riunione si è svolta in settembre, l' ultima poche settimane fa, in febbraio. Nella sede dell' Itu di Ginevra, l' organismo che fa capo all' Onu e che stabilisce gli standard internazionali nel campo delle telecomunicazioni, sono arrivati in entrambi i casi non più di una dozzina di tecnici e dirigenti cinesi: rappresentanti di Huawei, la società cinese all' avanguardia nel settore, dirigenti delle due maggiori società di telefonia del Paese, un pugno di funzionari del governo. Secondo il resoconto del Financial Times, hanno organizzato una presentazione usando il software più utilizzato per questo tipo di eventi, Powerpoint, e hanno parlato di come sarà Internet tra dieci anni: ologrammi, oggetti controllati a distanza, auto senza conducente.


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La tesi esposta è che il web come lo conosciamo oggi, e come si è sviluppato fino a qui, in maniera spontanea fino all' anarchia, non basta più. Anche l' internet protocol (in sigla Ip) il linguaggio di base che fa parlare tra loro tutte le reti di telecomunicazioni diffuse nel mondo, consentendo il trasferimento per mille rivoli dei pacchetti digitali, è inadeguato e va sostituito. Al suo posto, hanno detto i cinesi, bisogna introdurre un nuovo protocollo, un «New Ip», più razionale e ordinato, che consenta di gestire meglio il sistema, senza le falle e le incongruenze dell' attuale.



Linguaggio tecnico, materia per iniziati. Almeno all' apparenza. Perché è bastata la presentazione della delegazione asiatica per fare suonare tra i rappresentanti di alcuni Paesi occidentali un campanello d' allarme. Olandesi, britannici, svedesi hanno sottolineato i rischi di un approccio «cinese» al web; la prossima riunione dell' Itu dedicata a questi temi, in programma in India nel mese di novembre, si annuncia un po' più «calda» del solito.



LA SVOLTA

A spiegare pubblicamente meglio di altri la ragione del contendere è stato uno dei consulenti del governo svedese all' Itu, uno dei pionieri di Internet nel mondo, Patrik Fälström: «Oggi l' architettura del web rende molto difficile, quasi impossibile per chiunque fornisca l' accesso alla Rete, controllare o regolare i contenuti o i motivi per cui si accede». Nel progetto cinese si punta a correggere quello che è visto come un difetto. Il documento presentato a Ginevra parla di un sistema «disegnato dall' alto verso il basso», che consenta e promuova «meccanismi per lo scambio di dati tra i governi».


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Il timore di molti esperti, citati sempre dal Financial Times, è che «con il nuovo protocollo i service provider, i fornitori di accesso alla Rete, di solito statali, vengano ad ottenere il controllo e la vigilanza su ogni terminale collegato e che siano in grado di monitorarlo ed eventualmente limitarlo».



In un recente intervento Fabio Rugge, il diplomatico italiano che è anche responsabile del Centro per la Cybersicurezza dell' Ispi di Milano, ha spiegato natura e caratteristiche degli schieramenti in campo: «L' Occidente vede Internet come una infrastruttura neutrale in cui i contenuti non possono essere limitati, perché centinaia d' anni di battaglie per i diritti umani e la libertà d' espressione oggi si giocano online, i regimi autocratici vedono invece Internet come una minaccia alla loro presa sul potere, e i server per i social media situati al di fuori del loro controllo come un rischio intrinseco per la loro sopravvivenza». Non è un caso che sulla proposta di un nuovo protocollo Internet i cinesi abbiano dovuto fare i conti con l' opposizione occidentale e che abbiano invece incontrato i favori di Paesi come la Russia, l' Arabia e, pare, anche l' Iran.



Non c' è dubbio che siano proprio i governanti di Pechino i precursori e i più coerenti sostenitori del concetto di «sovranità digitale», contrapposta all' utopia originaria di un' Internet senza frontiere.


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IL MURO C' È ANCORA

Sin dagli anni Novanta i cinesi hanno creato quello che è conosciuto come Great Firewall (il termine, ironico, è stato, coniato dalla rivista Wired), una grande muraglia digitale che impedisce ai cittadini l' accesso a informazioni scomode, o considerate tali, per il regime. Vietati i siti religiosi o quelli che parlano del Dalai Lama, vietati il New York Times o le informazioni di Bloomberg, vietati social come Facebook o Twitter o la possibilità di accedere a Youtube.



Decine di migliaia di tecnici statali vegliano sulla censura, altrettanti sono impiegati per nutrire i social locali di post pro-governativi.

Partiti in ritardo rispetto ai cinesi, ma in grande recupero, sono i russi.

Esattamente come i governanti di Pechino stanno cercando di dare vita a una propria Internet separata (vedi anche l' altro articolo in questa pagina). Tra i tanti pregi (ovviamente se li si guarda dal punto di vista di un regime autoritario) un sistema di comunicazione parallelo consente tra l' altro di potere procedere senza problemi al cosiddetto shutting-down, lo «spegnimento» di Internet, in modo da evitare la circolazione di notizie o l' organizzazione di eventuali proteste.



CHIUDO TUTTO


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La pratica, per quanto spesso inosservata, è tutt' altro che rara. KeepItOn, organizzazione internazionale che si occupa di libertà digitale, ha censito 25 Paesi in cui sono accaduti episodi di questo tipo nel corso del 2018 e 33 l' anno scorso, segnalando tra l' altro che i periodi di «buio informativo» tendono a farsi più lunghi.



Da rilevare che metà delle chiusure si è verificata in India (una democrazia), dove viene decisa di solito a livello locale, per soffocare disordini, mentre una sola vicenda ha fatto scalpore a livello internazionale, quella del Kashmir, dove lo shut-down è servito al premier Modi per ridurre i problemi di ordine pubblico dopo avere privato dell' autonomia lo Stato con la maggiore presenza musulmana. Il Paese che ha effettuato più chiusure a livello nazionale è l' Algeria, mentre il controllo del web con il «blocco» dei social è stato fondamentale per consentire a Nicolàs Maduro di conservare il potere in Venezuela.



«Ma come è possibile per un governo chiudere Internet?», si è chiesto Samuele Dominioni, ricercatore del già citato Ispi, in un paper apparso pochi giorni fa. «Un bottone di spegnimento non esiste. Interrompere ogni tipo di connessione a livello locale o nazionale, richiede qualche livello di controllo governativo sulla struttura di Rete».



Per fermare il traffico di dati e informazioni ci sono varie possibilità: tra le altre chiudere i rubinetti a cui si collegano i navigatori (internet service provider), gli snodi di scambio (internet exchange points, Ixp) o agire sui cosiddetti nomi di dominio (il sistema, in sigla Dns, trasforma gli indirizzi dei siti scritti secondo il protocollo di internet in testi leggibili: per esempio con il suffisso .it per quelli che sono in Italia). Chiudere Internet è possibile, ma non facile, conclude Dominioni.


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Lo sanno bene i cinesi che, nonostante le migliaia di censori a libro paga del ministero degli Interni e della cosiddetta «Amministrazione del cyberspazio», faticano sette camicie per controbattere i «trucchi» di chi cerca di accedere ai siti occidentali. Un nuovo protocollo Internet può rendere più facile il loro compito.


LA SCUOLA CHE VERRÀ – RIPORTARE IN CLASSE OTTO MILIONI DI STUDENTI A SETTEMBRE VUOL DIRE PENSARE FIN DA ADESSO MISURE SUL DISTANZIAMENTO SOCIALE: SI IPOTIZZANO TURNI IN CLASSE MATTINA E POMERIGGIO O, DOVE NON SI PUÒ, LEZIONI MISTE IN AULA E A CASA, LEZIONI PIÙ BREVI, UTILIZZO DEL SABATO PER LA DIDATTICA E CANTIERI APERTI IN ESTATE PER RECUPERARE CLASSI ED EDIFICI – UNA RIPARTENZA CHE COSTA TRE MILIARDI E…

Corrado Zunino per “la Repubblica”

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Chiudere con l' anno scolastico in corso e guardare a settembre. Il mondo della scuola chiede alla ministra Lucia Azzolina, e ancor più al governo guidato da Giuseppe Conte, di iniziare a dedicare - subito, che non c' è tempo da perdere - tempo e intelligenze, progetti straordinari e risorse all' altezza alla scuola italiana. Per provare a riportare in classe otto milioni e mezzo di ragazzi a settembre.

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Non si è ascoltato altro, in questi primi trentatré giorni di clausura, quaranta giorni di istituti chiusi (che diventano cinquantadue se la prospettiva è quella di Codogno e Vo'), che un impegno ministeriale ventre a terra sulla didattica a distanza. Settantacinque milioni di euro per portare computer e tablet a chi non li ha, e ancora molti studenti non sono stati raggiunti.

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È stata una politica lodevole, «senza alternativa», come ha recentemente detto la ministra dell' Istruzione, un' azione che ha spinto in avanti conoscenze e pratiche di docenti e studenti, ma la lezione a distanza, «non può bastare ». Il mondo della scuola - a cui si aggiungono psicologi, educatori, le famiglie - chiede un piano straordinario per un anno di nuovo in classe.

E indica le ipotesi da percorrere per garantire le distanze sociali tra gli studenti, i 900 mila insegnanti e i 200 mila amministrativi impegnati: turni in classe mattina e pomeriggio o, dove non si può, lezioni miste in aula e a casa, quindi lezioni più brevi, utilizzo del sabato per la didattica e cantieri aperti in estate per recuperare classi ed edifici che hanno bisogno di interventi non strutturali.
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Per fare tutto questo servono risorse nuove. Tre miliardi, almeno.
Task force e cronoprogramma «La lezione a distanza non può bastare ». Sono le parole del sottosegretario all' Istruzione, Giuseppe De Cristofaro, negli ultimi tempi critico con l' agire della ministra e pronto a ricordare come il Consiglio superiore di sanità, per voce del suo presidente Locatelli, abbia detto esplicitamente che è il caso «di posporre la riapertura delle scuole al prossimo anno».

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Se ne riparla a settembre, sì, partita chiusa. Come ripartire, allora? Il sottosegretario De Cristofaro dice: «Bisogna fare tutti gli sforzi possibili per riportare in classe docenti e discenti. La didattica a distanza ha colmato il vuoto, ma ogni giorno amplifica le disuguaglianze che già a scuola esistono. Il ministero deve insediare al più presto una task force e costruire un cronoprogramma per i prossimi quattro mesi e mezzo. È il momento di trovare tre miliardi per la scuola italiana, che nelle ultime stagioni ha avuto scarsa attenzione. Questa pandemia ha dimostrato che i pilastri dello Stato sono il sistema sanitario e il sistema dell' istruzione.

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Dobbiamo mettere in discussione quello che abbiamo fatto fin qui, tagli. E portare a casa i concorsi avviati con un percorso rapido che guardi a chi già insegna».
Tre miliardi, ecco. Sono quelli che ha investito nel 2015, attraverso la "Buona scuola", il governo Renzi. Con quelle risorse sono stati assunti 86 mila docenti, si sono dati premi agli insegnanti più impegnati e bonus cultura a tutti quelli in ruolo. Due miliardi - 1,977 milioni, esattamente - è la cifra che era riuscito ad ottenere il penultimo ministro, Lorenzo Fioramonti (li ritenne insufficienti e sotto Natale si dimise). Serve quel livello di risorse, e serve da settembre.

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Rischio caos Francesco Sinopoli è il segretario della Federazione dei lavoratori della conoscenza della Cgil, il sindacato più grande nella scuola. Dice: «Oggi la ministra dimentica totalmente che per recuperare quanto perduto in tanti mesi saranno necessari forti investimentinel tempo scuola, organici docenti e amministrativi, laboratori, edilizia scolastica e sicurezza. Tre miliardi sono la base di partenza per tornare in classe a settembre con il distanziamento sociale, ma si può anche salire.
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Dovremo investire sul rinnovo del contratto e sull' aumento in busta paga perché già sappiamo che i carichi di questa rinascita peseranno sulle spalle dei nostri docenti, sottopagati. Ad oggi non sappiamo nulla: quale organizzazione didattica ci sarà, per quale ciclo scolastico, banalmente quale investimento sulla sanificazione degli istituti e sui dispositivi di sicurezza si farà. Di questo la ministra con noi non parla. Ci ha convocato per domani per comunicazioni sui concorsi, ma il sindacato non è qui per prendere comunicazioni, vogliamo discutere. Come hanno fatto in Fca arrivando a un accordo per la ripresa della produzione. No, all' incontro non ci presenteremo».
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L' ultima rivendicazione dei cinque sindacati - data 17 febbraio, la vigilia dell' epidemia - chiedeva più dei 100 euro lordi indicati da Fioramonti e un investimento pluriennale di 16 miliardi di euro: «Un punto di Pil sull' istruzione».

Come provare a organizzare il futuro prova a dirlo Lucio Ficara, docente di Matematica e Fisica in un liceo di Reggio Calabria, e giornalista della "Tecnica della scuola" a nome di diversi insegnanti: «Si può prevedere un' organizzazione con turni mattutini e turni pomeridiani. Per esempio, per le superiori, prime e seconde in classe dalle 8 alle 13 e il triennio dalle 14 alle 19. Per non fare lavorare i docenti il doppio delle 18 ore settimanali attuali, sarebbe necessario ridurre la lezione a 40 minuti, come accade in molti Paesi europei, elevando il monte ore di ogni "prof" al massimo possibile per legge, 24 ore settimanali».
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Per ricompensare questo sforzo emergenziale (durerebbe un anno, forse anche solo sei mesi) serve un rinnovo del contratto vero, da fare subito. Fioramonti l' anno scorso parlava di 100 euro lordi il mese: «Facciamo, almeno, 100 euro netti in più in busta paga ». Che resteranno anche quando l' emergenza sarà finita e le ore di insegnamento rientreranno a 18 a settimana.

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Carmela Palumbo, storica capo dipartimento del vecchio Miur, immagina realizzabile una dinamica mista, da "scuola capovolta": spiegazioni online e verifiche (orali e scritte) a scuola, a gruppi. «Si può immagine l' uso del sabato mattina, questo magari da casa».
Un grande piano dovrebbe mettere tutti i fondi di istituto, sono 800-900 milioni, su questo progetto di rifondazione: priorità alle materie di programma. E recuperare all' insegnamento i 50 mila docenti che la "Buona scuola" aveva messo su un potenziamento mai realizzato.
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